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Il segno del pane a Tabgha Mc 6,38-44

(tratto da A. Carfagna – F. Rossi de Gasperis, Luoghi di rivelazione. Dove sulla terra si apre il cielo, EDB, Bologna 2012, 117 – 124 passim.)

«Ma egli rispose loro: “voi stessi date loro da mangiare”» (Mc 6,37). Il suo invito di dare se stessi da mangiare alla gente, nella mente di Gesù, non ha qui un senso soltanto materiale. Egli sa bene che essi non dispongono del cibo del cibo materiale o del denaro sufficiente a sfamare tutti, senza bisogno che i discepoli glielo ricordino. La sua parola va capita nell’ordine di quanto egli sta facendo. In altri termini, sembra che qui Gesù voglia dire ai suoi:« Oh, come sarebbe bello, se anche voi, di fronte a queste folle affamate di tutto, vi metteste a sfamarle donando loro la vostra stessa vita, comportandovi come il buon pastore che dà la vita per le sue pecore!». I discepoli non sono capaci, per ora, di comprendere questo desiderio del loro Maestro. Soltanto più tardi, dopo la sua morte e risurrezione, essi saranno in grado di capire pienamente cosa stava facendo, quel giorno sulle rive del lago presso Tabgha, cioè come allora stesse consegnando e senza misura con infinita sovrabbondanza, il suo corpo in pasto alle folle, per salvarle con al sua stessa vita. Quando i discepoli comprenderanno ciò, dopo la Pasqua, tutti potranno e sapranno dare effettivamente se stessi da mangiare alle folle, sfamandole della loro stessa esistenza, secondo il desiderio del loro Signore…

Giovanni ci riferisce chiaramente quale fu la reazione della gente di fronte a questo miracolo di Gesù: lo volevano fare re (Gv 6,15). Intuiamo subito che questo gesto di Gesù interpretato dalla gente non come segno della sua persona, ma come il potere magico di qualcuno capace di risolvere i problemi della fame nel mondo, avrebbe avuto serie conseguenze per la sorte futura del Maestro. Il suo gesto lo fa acclamare dalla folla e dagli stessi discepoli come il profeta e il Messia, che tutti attendevano con i caratteri di un liberatore politico, sociale, potente e trionfale, di un re capace di soppiantare lo stesso imperatore romano. «E subito costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, a Betsaida, finché non avesse congedato la folla» (Mc 6,45).

Gesù è consapevole del pericoloso circolo interpretativo a cui si è esposto. E probabilmente solo ora, nel percorso storico della sua coscienza, comincia ad affacciarglisi alla mente la prospettiva della passione. Essa non è ineluttabile, fatale, ma finisce per divenire “necessaria” (cf. Mc 8,31). Egli ora intuisce che, per sottrarsi a questa grandiosa e falsa interpretazione di liberatore, dovrà assumere la passione e la morte come unico mezzo per manifestare nella verità che egli è il pane vivo, che dà la vita per salvarci. Notiamo il gesto di Gesù che spezza il pane e lo consegna ai discepoli perché lo distribuiscano: sarà più tardi il segno della sua cena (Mc 14,22). Esso significa la passione e la morte di Gesù, di cui i discepoli, dopo la Pasqua, faranno memoria nel banchetto eucaristico, prendendo parte con la loro vita al mistero pasquale del Maestro.