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Il Monte Tabor e il mare di Galilea

tratto da Antonella Carfagna, Francesco Rossi de Gasperis – Terra Santa e Libro Santo, Una lectio divina

Saliamo al monte Tabor (588 metri), dove oggi le Chiese della Terra Santa ricordano il mistero della Trasfigurazione, che costituisce l’icona più e meglio comprensiva del mistero pasquale, quale punto di convergenza e di continuità trasfigurata tra la prima e l’ultima alleanza. Qui dunque facciamo una prima memoria della trasfigurazione die Gesù.

Antico luogo di culto cananeo, il Tabor segnava un confine per le tribù del nord: Issacar, Neftali, Zabulon. Esso è menzionato dal Salmo 88,13, insieme all’Ermon, come se si trattasse di due salmisti, i quali lodano il nome del Signore sulla terra di Israele, dal settentrione al mezzogiorno. Ger 46,18 paragona al Tabor e al Carmelo, emergenti prepotentemente dalla pianura di Izreel, Nabucodonosr, il quale sta per invadere l’Egitto, nel 568-567 a.C.

Gesù, da ragazzo, può essersi recato più volte da Nazaret al vicino Monte Tabor, e da lassù – oppure dalle stesse alture che circondano Nazaret, con gli occhi paerti sulla piana di Esdrelon, avrà riletto tutta la storia di Israele scritta in buona parte su questa regione. Da bambino, da ragazzo, da giovane, da adulto, egli ha sempre nutrito in sè una coscienza proporzionata della sua identità, e poi del proprio messianesimo. Egli sapeva di essere inviato dal Padre a portare a compimenti tutti gli eventi di quella Storia del Santo, che Giuseppe e Maria gli avevano raccontata sin dalla prima infanzia, e che, quando si affacciava dalle sue colline, si snodavano sotto i suoi occhi. Noi, come possiamo, cerchiamo di entrare nel suo cuore e di fare con lui una tale lettura.

Sul Tabor, cantando il meraviglioso, feroce, canto di Debora, che forse aveva appreso a memoria, Gesù poteva ricordare le gesta di Debora e di Baraq contro Sisara e i re idolatri di Canaan (Gdg 4-5; cf il sottostante villaggio di Daburiya). E, facendo memoria di Giaele, sorrideva forse, pensando a sua madre, che un giorno, incinta di lui, era stata salutata dalla parente Elisabetta con le parole con cui Debora aveva benedetto la moglie di Eber, il kenita (Gdc 5,24); così come, un altro giorno, Ozia, aveva benedetto Giuditta, che rientrava a Betulia con la testa troncata di Olofene (Gdt 13,18).

Spingendo poi lo sguardo verso la sorgente di Charod e il monte More, Gesù poteva ricordare il “giorno di Madian”, quello della miracolosa vittoria di Gedeone (Gdc 6-7), che già una volta Isaia aveva riletto e celebrato come paradigmatico della liberazione della terra di Zabulon e di Neftali da parte JHWH (1Sam 10,1-2; 24,7.11; 26,9.11.16.23; 2Sam 1,14.16), abbandonato misteriosamente dal Signore (1Sam 15,10-35; 16,1; cf. Mt 27,45-50; Mc 15,33-37), ma caduto da prode, disperatamente trafitto, insieme ai suoi figli, combattendo per Israele contro i filistei. I loro corpi, appesi alle mura di Bet-She-an – che si indovinava a oriente, verso il ghor del Giordano – aveva ricevuto sepoltura dai cittadini di Iabes di Galaad (1Sam 31-2Sam 1; 2,4b-7; 1CR 10,1-14).

Dal Tabor Gesù poteva scorgere, a 5 chilometri verso sud, anche la località di Endor, dove, attraversando le file filistee, accampate in Shunem, Saul aveva fatto inutilmente evocare dalla negromante lo spirito di Samuele, la notte precedente la sua morte (1Sam 28,3-25).

Sgunem (oggi Sulam), al di là del monte More, ricordava a Gesù la patria di Abisag, la bellissima ragazza vergine che si occupava del vecchio re Davide (1Re 1,3-4.15). Per averla desiderata in moglie, Adonia era stato fatto uccidere da Salomone (1Re,13-25). “Shulammita” (o “Shunamita”, cioè “abitante di Shunem”) è l’incantevole figura femminile del Cantico dei Cantici, il cui nome ricorda quello di Salomone. E Gesù non era forse venuto per essere il vero Sposo di quella escatologica festa nuziale? A Shunem, inoltre, Eliseo aveva goduto dell’ospitalità generosa di una signora, a cui il profeta aveva annunciato la nascita di un figlio, e che in seguito fu drammaticamente risuscitato dallo stesso profeta (2Re 4,8-37). La gratitudine del profeta aveva seguito la signora shunammita per molti anni (2Re 8,1-6).

A sud di Shunem, nel territorio di Iscaar, c’era Izreel, la seconda città del regno del nord, dove la memoria della prepotenza di Acab e di Gezabele ai danni di Nabot doveva far fremere ancora il cuore generoso di Gesù, come aveva fatto fremere, a suo tempo, quello di Elia (1Re 21).

Come, poi, a Zarepta di Sidone aveva fatto Elia, risuscitando il figlio di una vedova (1Re 17,17-24), e come a Shunem, tra il monte More e i monti di Gelboe, aveva fatto Eliseo, Gesù, a Nain (ebr. Na’im), proprio tra il More e il Tabor, doveva resuscitare il figlio di una vedova, di cui non avrebbe potuto sopportare il pianto (Lc 7,11-17). Queste temporanee vittorie sulla morte non erano forse una profezia della sua propria definitiva risurrezione gloriosa? Sul Lago di Galilea, di cui al Tabor verso nord-est si intravede il bacino tra le alture di Tiberiade e quelle del Golan – Gesù avrebbe due volte sfamato folle di giudei e di gentili, moltiplicando il pane e i pesci, come aveva fatto Eliseo con le primizie offertegli dall’uomo venuto da Baal-Salisa (2Re 4,42-44). Allo stesso modo Elia aveva assicurato la permanenza dell’olio e della farina per quella vedova di Zarepta e per suo figlio (1Re 17,7-16), che Gesù avrebbe menzionata parlando ai natzorei nella sinagoga del loro villaggio, fin dagli inizi della sua diaconia messianica. Eliseo, poi, aveva procurato un sicuro patrimonio alla vedova di un profeta, moltiplicando l’olio del suo unico orcio (2Re 4,1-7).

Scorgendo in fondo, a ovest, il Tell di Meghiddo, Gesù poteva ricordare la tragica morte in battaglia di un altro “Unto trafitto”, il giusto e davidico re Giosia. Il Tell di Meghiddo chiude la piana di Esdrelon. Meghiddo è uno dei luoghi-chiave del paese di Israele, si dal punto di vista strategico (e archeologico) sia da quello teologico. Esso controlla l’area dove la Via Maris, salendo dalla costa attraverso il wadi’Ara, si immetteva nella piana di Esdrelon per proseguire verso oriente, Damasco e Babilonia. Megiddo era stata assegnata da Giosuè alla tribù di Manasse, ma senza essere stata veramente conquistata (Gs 12,21; 17,11-13; Gdc 1,27). Fu poi incendiata e distrutta da da Davide, e ricostruita e potentemente fortificata da Salomone (1Re 4,12); 9,15), e più tardi da Acab. Meghiddo è un crocevia dove muoiono i re di Giuda. Durante la rivolta di Ieu contro Ioram, figlio di Acab, si dice che anche Acazia, re davidico di Giuda, sia stato fatto colpire da Ieu e sia morto a Meghiddo (2Re 9,27-28? cf 2Cr 22,9). Soprattutto, però, in seguito alla subitanea morte in battaglia di un altro “Unto trafitto” – il giusto Gioisa, santo e riformatore re davidico di Gerusalemme (2Re,22-1,23-28; 2Cr 34,1-15,19.26-27), ivi trafitto dagli arcieri del faraone Necao (609 a.C.) – Meghiddo diventa il luogo di uno shock spirituale e di un lutto nazionale, che sarà foriero di una novità insospettata e insospettabile nell’economia di JHWH con il suo popolo (2Cr 35,20-25). Insieme alla sorte tragica di Geremia, un profeta che gli fu amichevolmente e incrollabilmente fedele, questa morte sarà un fatto che darà luogo all’insorgere di una rivoluzione nella teologia della retribuzione dei giusti (cf Ger 12.16). Inaugurando la tragedia nazionale dell’esilio di Giusa (2Re 23,26-27), le sorti di Giosia e di Geremia diventano un’inattesa chiave interpretativa della catastrofe politica e religiosa del popolo – la distruzione del Tempio di Gerusalemme, la fine della monarchia davidica e le deportazioni babilonesi – e aprono nella coscienza di Israele la breccia di una teologia del “servo sofferente di JHWH”, che troverà ampio sviluppo nel Secondo Isaia, e in tutto un filone di spiritualità nuova sul mistero della passione di Dio e dei suoi amici. Zc 12,10-14 parlerà ancora del “Trafitto” di Meghiddo (JHWH stesso, secondo il testo masoretico?), che la contemplazione giovannea rievocherà davanti al “Trafitto” del Golgota, fino a fare della montagna di Meghiddo (Harmaghedon) l’ultimo crocevia topografico e spirituale della storia, il luogo dell’esame escatologico per tutti i regni della terra (Ap 16,16; cf 1,7). Il lamento su Giosia composto da Geremia, e che tutti conoscevano in Israele, non era forse noto a Gesù? (2Re 23,29-30; 2Cr 35,20-27; Sir 49,1-4; Zc 12,10-13.1). Il filone teologico e spirituale del “Servo Sofferente” fornirà, poi, alla Chiesa nascente un primo riferimento cristologico per comprendere e annunciare il mistero pasquale del Messia Gesù. Meghiddo rappresenta perciò un altissimo luogo terminale del nostro pellegrinaggio.

In vista del Monte Carmelo, sul limite occidentale della spianata di Esdrelon, Gesù poteva rievocare tutto il ciclo profetico del mistero di Elia (1Re 17,1-2Re 2,18) e di Eliseo (2Re 2,1-13,21) a cui egli veniva a dare compimento. Ricordava la grande giornata di el-Muchraqa, con la sfida lanciata da Elia, il solo profeta di JHWH, ai 450 profeti di Baal e ai 400 profeti di Ashera, che mangiavano sulla tavola di Gezabele: “Fino a quando zoppicherete con i due piedi? Se JHWH è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!” (1re 18,21). Il torrente Qishon, che scorre verso il Mediterraneo, poteva raccontare ancora la vittoria del profeta del Signore-Uno sulla molteplicità dell’idolatria. Dal Carmelo però Elia, misteriosamente vittorioso e tremante, avrebbe dovuto percorrere ancora fino al Monte di Dio, l’Oreb, un lungo itinerario di conversione al Dio-Uno, di cui pure egli era stato il vindice sul Carmelo. Lì egli doveva imparare che JHWH non è il Dio della strage di el-Muchraqa, ma “voce di un delicato silenzio” (1Re 19,12: qol demanah daqqah): Dio di Elia, il quale lo portava nel proprio nome, ma pure dei sacerdoti di Baal trucidati da Elia, così come JHWH era stato il Dio di Mosè e d’Israele, ma pure degli egiziani travolti dalle onde del mare dei Giunchi. Da Meghiddo, che si staglia ai piedi della vetta del monte, e lungo l’itinerario profetico dal Carmelo all’Oreb, è impressa sulla topografia del paese la lezione e la duplice impronta del mistero pasquale: la sorgente della bellezza e dello splendore del Carmelo è la croce di Meghiddo. L’ultima profezia della storia è la testimonianza di Gesù crocifisso e risorto. Egli sarà il re trafitto a Meghiddo, e sarà pure lo splendore del Carmelo, perché è “il più bello tra i figli dell’uomo”, sulle cui labbra si è diffusa la grazia (Sal 45,3). Tra Meghiddo e il Carmelo si intravede qualche cosa di quella bellezza che – come afferma F. Dostoevskij – salverà il mondo.

Una lectio divina della Terra, fatta sulla piana di Esdrelon (Yizre’l = Dio Semina) dal Tabor o dalle colline di Nazaret, attraverso la conoscenza di Gesù, è una delle contemplazioni più fruttuose di un pellegrinaggio in Galilea. Su quella piana JHWH ha davvero “seminato” gran parte del buon grano di cui sarà fatto l’ultimo suo pane messianico. Dal Tabor l’evocazione di tante memorie emerge spontanea sotto gli occhi di tutti; l’accostamento di un testo all’altro non ha bisogno di andar sfogliando le pagine del Libro: i “luoghi paralleli” sono bene in vista per coloro che abbiano occhi per vedere e orecchie per udire.