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Il senso del deserto nella Bibbia

di A. Carfagna

(da I canti della terra del mio pellegrinaggio, EDB Bologna 2009, 49 52 passim)

Dal momento che ci sta a cuore la memoria della Parola, che cerchiamo di far rivivere in noi, l’immersione nell’arsura e nella morte del deserto, almeno per qualche giorno, ha lo scopo di aiutarci a sentire e a percepire qualche cosa di quella che fu l’esperienza fondamentale e fondante di Israele. Come popolo, esso ha dovuto marciare nel deserto grande e spaventoso per “quaranta anni”, prima infine di vedersi aprire le porte della terra promessa. Si è trattato di un ‘esperienza completa (=quaranta anni), in cui il popolo ha dovuto assimilare tutte le lezioni impartire da questa terra invivibile, come condizione imprescindibile per poter varcare le soglie della terra sospirata…

La vita germoglia dal dolore e dalla morte. Nel vuoto, nel tohu wavohu, informe e caotico (Gen 1,2), in cui il sole dardeggia implacabile e la terra è assetata e senz’acqua, la vita non è impossibile. Noi proprio nel deserto incontriamo meraviglie della creazione di Dio. Si tratta di creature nascoste, silenziose e discrete, che hanno bisogno di sensi allenati e di uno sguardo affinato per poter essere viste.

Qui si sperimenta il prodigio, la forza e la preziosità della vita, proprio dove tutto sembra contribuire a soffocarla. Si è più sensibili e pieni di stupore e di gioia davanti a una vita che sboccia su un orrore, e che sembra un miracolo- quale vita non lo è? I viventi qui sono vivi davvero, perché per esserlo hanno dovuto lottare e sfidare la morte. Basti osservare la vegetazione tipica: le acacie, i tamerischi, le ginestre, i fiori che dopo la stagione delle piogge ricoprono le rocce di una bellezza da togliere il respiro.

Qui si sperimenta come le creature più belle si trovino proprio lì, dove non ci sono occhi umani a capirle, cioè nel nascondimento. Il deserto è una scuola per affinare i sensi e renderli capaci di scorgere ciò che vive dietro a ciò che appare. Si tratta di un esercizio che finalmente ci porta comprendere che il reale è oltre ciò che si vede. L’affinare i sensi e scorgere le piccole vite ci dispone ad accogliere la distesa delle meraviglie invisibili all’occhio umano, eppure realissime, che ci attendono nei cieli, in cieli nuovi e in una terra nuova nei quali avrà stabile dimora la giustizia (Is 65,17-18; 66,22; Eb 11,3; Gb 38,1-42,6).

Viaggiamo contemplando le rocce dai multiformi colori, formazioni geologiche antichissime ricchissime, di un organismo vivo e in continua trasformazione. Il maggior potere erosivo e trasformante è costituito dalle precipitazioni di acqua piovana, che, benché in quantità che varia dai 25 ai 200 mm, sono in grado di produrre in inverno vere alluvioni. L’erosione di questa acque invernali degli strati di calcare più morbidi favorisce la formazione di torrenti (nachal, in ebraico; wadi in arabo).

Se attraversiamo il deserto nei mesi estivi e autunnali, tali torrenti sono per lo più asciutti; in inverno, però, al tempo delle piogge si potrebbe assistere a spettacoli unici: il fondo dei wadi, essiccato e reso impermeabile dalla calura estiva, si riempie di acqua che scorre improvvisamente, fino a produrre fiumi impetuosi, che trasportano rocce e travolgono tutto ciò che incontrano. Si tratta di acque che sorprendono inaspettatamente e sono estremamente pericolose per coloro che si trovassero a percorrere il nahal in quel momento.

Nel deserto si può morire di sete, per l’arsura e la mancanza di acqua, ma, paradossalmente, proprio nel deserto, si può morire annegati, per il sopraggiungere di un’acqua troppo abbondante. Il deserto, di fatto, è l’ambiente in cui Israele ha compreso il valore ambivalente dell’acqua, che nella Bibbia è nel contempo simbolo di vita e di morte. Essa vi si presenta in due modalità: da una parte vi è l’acqua delicata delle sorgenti nelle oasi, che appaiono un miracolo e una benedizione, il segno della provvidenza del Signore che si prende cura del suo popolo; dall’altra vi sono le acque dei torrenti a cui si associano generalmente significati negativi, a causa della minaccia che rappresentano. Queste ultime non di rado richiamano i pericoli e le insidie mortali normalmente simboleggiati dall’acqua del mare. Si pensi al simbolismo racchiuso nell’evento del passaggio del Mare dei Giunchi nell’esodo egiziano (Es 15), alle angosce di Giona, che, inghiottito dal pesce, è sprofondato negli abissi (Gn 2).

Si tratta di esperienze spirituali che hanno impressionato gli uomini biblici fino a giungere a esprimere il proprio vissuto spirituale in termini di acqua (Sal 69, 2-3.15-16). Contemplate in Dio però le acque di morte si trasformano prodigiosamente in sorgenti che zampillano tra le valli e scorrono tra i monti per abbeverare le povere creature del deserto (Sal 104, 6-11). Anche noi allora attraversiamo il deserto con l’audacia di questi oranti, come sognatori che vedono realizzarsi sogni impossibili.

Tutta l’esperienza biblica, in fondo, si riassume nella capacità di sorridere sull’impossibile, come la madre del popolo, Sara, aveva riso di fronte alla promessa del figlio insperato. Nel nome di lui, Isacco (= risata di Dio), è impresso per sempre il principio attraverso cui il Signore conduce la sua storia: il gioco, il sorriso, la danza (sono alcuni dei significati della radice tzachaq). In questi termini i mistici cristiani rileggono anche il mistero del Signore crocifisso: la follia di Dio più sapiente degli uomini.