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La vicenda di Sara e Agar

di Marco Tibaldi

(tratto da M. Tibaldi,  Il codice Abramo. Personaggi in cerca di attore: Abramo e Sara, Pardes 2009 87-92)

Un secondo modo per adattare la promessa (16,1-16)

Dopo Abram ora è Sarai che si rende protagonista di un nuovo tentativo di adattamento della promessa di Dio alle strategie umane.

Il testo è così strutturato:

  • Il problema (v. 1)
  • L’iniziativa umana (vv. 2-6)
  • L’intervento divino (vv. 7-14)
  • La risoluzione (vv. 15-16)

L’iniziativa di Sarai (vv. 1-6)

La storia procede e i due protagonisti invecchiano. La narrazione infatti ci ricorda che sono passati ormai dieci anni dall’insediamento di Abram in Canaan, per cui lui ha ora ottantacinque anni e Sarai settantacinque (v. 3). Le due protagoniste del racconto sono Sarai e la sua schiava Agar. Il capitolo comincia presentandoci la mancata realizzazione della promessa dal punto di vista di Sara. Abilmente il testo modifica l’angolazione delle vicende, focalizzandosi ora sulla compagna di Abram.

E il lettore è indotto a chiedersi come lei stia vivendo l’evolversi della storia: cosa prova? Quali sentimenti si agitano nel suo cuore? Quali scelte intende fare? Anch’essa è coinvolta nel dinamismo relazionale del marito e, per certi versi, la realizzazione della promessa del figlio la tocca molto di più che Abram: è dai suoi fianchi che dovrà uscire l’erede.

Sarai secondo me

«Abram è diventato un uomo famoso, è stato benedetto da Melchisedek è intervenuto in un conflitto di portata internazionale, parla con Dio… e io ancora non gli ho dato un figlio maschio, ormai mi ero rassegnata e forse anche lui, ma l’accelerazione che ha preso la nostra vita ha modificato tutto: e se mi molla? Se lui continua a crescere, prima o poi, si staccherà da me, prenderà qualcun’altra e io mi ritroverò sola a abbandonata… del resto ho visto come si è comportato con me in Egitto… Tutto questo mi angoscia e mi spaventa tanto da non farmi dormire la notte. Tanto vale giocare d’anticipo: mi servirò della mia schiava! Sarà dura accettare di metterlo in braccio ad una donna più giovane e avvenente, c’è sempre il rischio che si innamori, ma devo correre questo pericolo: sì gli darò un figlio in questo modo»

Come prima Abram, ora anche Sarai interpreta a suo modo l’indicazione divina. Sfruttando una possibilità concessa dalle usanze dell’epoca, decide di servirsi della propria schiava per avere un figlio.

A leggere con attenzione il testo, si scoprono le motivazioni che hanno spinto Sarai a prendere un’iniziativa così drastica. Possiamo immaginare cosa comporti la scelta di invitare il proprio compagno ad unirsi con un’altra donna. Tutte le differenze culturali, che pure hanno un peso, non eliminano alcune costanti antropologiche che restano nel mutare delle usanze.

Sarai aveva già parlato una volta con Jhwh anche se non ci è stato riferito il contenuto delle sue parole (12,7). Ora è lei che impartisce un ordine ad Abram, con un’espressione che riecheggia il “vattene” con cui era cominciata tutta la vicenda. Sarai non nomina mai Agar, che considera un suo possesso, come un oggetto. Tramite lei, dice il testo, «potrò avere figli». Letteralmente l’espressione è «sarò costruita»: in altre parti della Bibbia l’avere figli è descritto con l’immagine della costruzione. Il verbo «edificare», «costruire» (bnh) rimanda a ben, figlio: «è tuttavia significativo che Sara qui non usi il verbo “dare figli”, “partorire”. Essa cerca, anzitutto e soprattutto, la sua promozione e grandezza. A ciò devono servire la sua schiava e il figlio che questa partorirà eventualmente e che, di diritto, apparterrà non a sua madre, ma alla padrona di sua madre» (Vogels 1999, 141).

Forse gelosa dei successi del marito, anche Sarai desidera essere protagonista della storia. Per questo è disposta anche ad umiliarsi, fino a ‘dare in moglie’ Agar ad Abram.

Come reagirà Abram alla proposta di Sarai? Poteva rifiutare, discutere, prendere tempo e invece Abram ‘obbedisce’. Agar viene ‘presa’ e ‘data’ come un qualsiasi utensile, senza che nessuno le chieda nulla. Agar è egiziana, è giovane e feconda. Nel suo nome è adombrata la radice «ger», che significa straniero. Ancora una volta la vicenda particolare di Abram e Sarai intercetta gli ‘altri’, lo straniero.

Abram si unisce alla nuova moglie-schiava e questa resta incinta. Ciò che Sara non aveva previsto ora accade. Una volta incinta, Agar comincia a non obbedire più alla propria padrona, forse implicitamente incoraggiata dalla soddisfazione di Abram, che finalmente comincia a vedere una qualche realizzazione della promessa tanto attesa del figlio. Sarai si trova ora ad essere umiliata da Agar e scarica la rabbia che tutto ciò le provoca paradossalmente proprio su Abram: «L’offesa a me fatta ricada su di te!» (16,5). Abram le dice, allora, di farle quello che vuole. E Sarai «maltrattò» Agar al punto da indurla a fuggire. L’espressione è molto forte, è la stessa che viene impiegata per descrivere l’atteggiamento degli egiziani verso gli ebrei durante la schiavitù. Ora le parti sono invertite e Agar si dà alla fuga.

L’intervento divino (vv. 7-14)

Come sempre accade nella Scrittura, una storia che sembra conclusa miseramente viene riaperta dall’intervento di Dio: in questo caso tramite un angelo che entra in scena . L’angelo del Signore non è distinto da lui: «è un’immagine per parlare di Dio che si manifesta ad una persona in forma visibile» (Vogels 1999, 143 ). Il messaggero di Jhwh le rivolge la parola chiamandola per nome e le dice, con sorpresa per il lettore e forse anche per lei, di ritornare presso la sua “padrona” per rimanervi sottomessa. Jhwh, che in seguito libererà Israele dall’oppressione dell’Egitto, non ha lo stesso messaggio per la schiava egiziana. Con grande realismo, viene intimata ad Agar l’unica soluzione che le consenta di far vivere il bambino. Dopo aver comunicato questo ordine, il messaggero fa ad Agar due promesse, che nel tono e nel contenuto assomigliano molto alle promesse fatte ad Abram. Unica donna a riceverle, anche a lei vien detto che avrà una discendenza numerosa e che presto le nascerà un figlio, Ismaele, il cui nome significa «Dio ha ascoltato, ha udito». Il nome fa riferimento alla sua afflizione, di cui Jhwh si è preso cura. Il destino di libertà che non viene concesso a lei viene promesso al figlio e alla sua discendenza, che vivrà indipendente ed errante «abitando di fronte a tutti i suoi fratelli» (16,12). Agar accetta ed ora è lei che parla al Signore, dimostrando che l’angelo e Jhwh sono la stessa persona. Si rivolge a Dio qualificandolo in un modo unico per tutta la Scrittura, «El Roj», «il nome può significare “Dio della visione”, il Dio che vede tutto; o “Dio che mi vede”; o anche “Dio della mia visione”» (Vogels 1999,145). Dio ha ascoltato e veduto Agar come ha udito e veduto la miseria del suo popolo in Egitto (Es 2,24-25); Agar è sorpresa di essere ancora viva dopo aver incontrato il Vivente, poiché chi vede Dio muore (Es 33,20). Per questo il luogo dell’incontro è il pozzo di «Lacai – Roi» (v.14), il «pozzo del vivente che mi vede» (Gen 24,62; 25,11).

Agar fa così ritorno da Sarai, partorisce il figlio ed è Abram che gli darà il nome Ismaele. Agar non può nemmeno dare il nome al figlio ché questo spetta ad Abram. Questi, tra l’altro, in tutto l’episodio è sembrato molto passivo, privo di una volontà propria. Ora però ha finalmente un figlio anche se nato da un espediente umano che Jhwh sembra ratificare.

Il racconto attira anche l’attenzione su un altro punto: «Jhwh non è unicamente il Dio di Abram e della sua discendenza, ma anche il Dio dell’egiziana e della sua discendenza. È il Dio delle nazioni. Il racconto riguarda così, indirettamente, il tema della benedizione universale (12,3)» (Vogels 1999,147). Sarai che aveva messo in moto tutta questa vicenda è ancora una volta estromessa.

La buona notizia

Dio non si perde d’animo anche davanti alle tortuose risposte dei suoi interlocutori. Ne accetta le conseguenze sempre riuscendo a rilanciare la sua proposta.

Si prende cura anche delle conseguenze delle scelte sbagliate degli uomini come nel caso della discendenza di Agar.

L’aver dato credito a Dio non ha cambiato magicamente Abram, che resta un uomo fragile con tutti i suoi difetti. Questo però non lo pone fuori della storia della salvezza, nel senso che anche le fragilità degli uomini non impediscono a Dio di mandare avanti il suo piano di salvezza.