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La vocazione di Mosè (Es 1-3)

di Marco Tibaldi

Mosè: ecco allora la vicenda di un bambino che è stato salvato, che per una serie di gesti gratuiti può vivere e crescere in una situazione particolare, di privilegio, alla corte del faraone, allevato dai migliori maestri dell’epoca, educato da dotti e colti Oxford dell’epoca, ad una vita raffinata ed elegante, nel centro del potere, dell’autorità. Un figlio cresciuto per il comando, per svettare, per raggiungere il meglio, che ha il meglio di tutto ciò che si può ottenere. Ma sul più bello della sua crescita, al massimo del suo splendore l’esperienza che spezza in due la sua vita, che mina le proprie velleità:  scopre l’altra faccia della medaglia. Cioè che il potere si basa sull’ingiustizia, e l’ingiustizia è operata su uomini come lui, della sua razza: qui Mosè fa quell’esperienza in cui sente che non può più stare con il piede in due staffe come ha fatto sinora, barcamenarsi godendo della propria situazione di privilegio. Mosè ora che ha visto le cose come stanno deve prendere una posizione, o ignorare la situazione di chi sta peggio di lui, o prendersene cura.

Le tre tappe della vita di Mosè

Le tre  tappe della vita di Mosè, come ricostruisce Stefano prima della lapidazione in Atti 6-7 e divide la sua storia in tre tappe di 40 anni, tempi simbolici:

  • La prima tappa è quella di Mosè liberatore sincero, che sinceramente sceglie di agire, fare qualcosa per liberare il proprio popolo. Il problema è che concepisce la liberazione allo stesso modo del faraone, come avere più potere dell’altro, e quindi agisce d’istinto e fa soccombere, preso dall’ira, l’egiziano. Che questo non funzioni lo dice il fatto che il giorno dopo gli ebrei stessi non lo vogliono come capo. Mosè è sinceramente desideroso di liberare il popolo, ma non si è ancora messo nella verità, cioè nel trovare le modalità migliori per farlo.
  • La seconda tappa della vita di Mosè è quella in cui fugge, si sposa, riflusso nel privato. Lascia perdere, o almeno capisce che in quel modo non ce la può fare e cambia vita. Occorre molto tempo per metabolizzare un fallimento, e lui come liberatore è fallito. C’è da ricominciare da capo, ricostruirsi una vita, scegliere cosa fare di quel passato così ingombrante: rimuoverlo, farlo cadere nel dimenticatoio, oppure farci i conti. Il tempo è galantuomo, e Mosè in terra di Madian, cresce, matura, gli si sono spenti ormai i bollenti spiriti, mette su famiglia e si dedica al nuovo mestiere di pastore, con tanto tempo a propria disposizione. Cosa fa, cosa pensa del passato non si sa, ma è il tempo in cui Mosè va a fondo. A fondo della propria storia, del proprio fallimento, si trova nella terra che dichiara il proprio fallimento, e lì poco alla volta recupera, medita sul senso del proprio passato, nelle lunghe ore di pascolo nel deserto.
  • Se Mosè ha rimosso tutto, Dio non scorda e non lascia perdere. Qui entra in gioco veramente Dio, finora sembra che non ci sia stato perché Dio rispetta la libertà di Mosè, che nella prima fase dice: so io come fare, ci penso io a fare il liberatore, non lo vuole ascoltare, come facciamo noi quando partiamo per la tangente. Nella seconda fase pare invece che Mosè dica: non ne voglio sapere di nessuna liberazione, ho lasciato perdere.
  • La scena si sposta sul monte sacro, l’Oreb, dove Mosè sperimenta un fenomeno curioso, può essere un fuoco fatuo, oppure il petrolio, potrebbe lasciar perdere quel segno che intravede e pensare ad occuparsi piuttosto delle proprie faccende. Ma il tempo evidentemente in lui ha dato frutto, e davanti al fenomeno vuole capire bene, si sente provocato ad andare a fondo, è curioso di comprendere le cose. Si avvicina, è una scelta libera, poteva correre dietro alle sue pecore, ma così scopre la voce di Colui che si è fatto suo amico, che da sempre attendeva la sua disponibilità per potersi rivelare. Il deserto è anche il luogo della tentazione, la tentazione di chiudersi nel proprio piccolo mondo, ma anche il luogo in cui ci si può purificare da tutte le scorie, scoprire ciò che conta.
  • Cosa sperimenta Mosè? C’è Qualcuno che arde e non si spegne mai, arde per la passione verso il proprio popolo, una passione che si ravviva bruciante, l’immagine poetica dice molto sull’esperienza che fa mosè di sentirsi avvicinato da questa passione. Lui che era mezzo morto, con una vocazione da fallito, scopre di essere prediletto di amicizia da Dio. Ora Dio si rivela nel roveto, nella terra del suo fallimento gli viene incontro, e in questo caso Mosè, messo a nudo, è pronto ad ascoltarlo. Dio rivela il suo nome, le 4 sacre lettere che non possono mai essere pronunciate con le vocali, perché dire un nome è avere il possesso dell’altro. Togliere i sandali è simbolo di riverenza, è far capire all’altro che la terra del suo fallimento è luogo di rivelazione, c’è qualcuno che si occupa di lui e del suo senso di fallimento, che lo vuole recuperare, quello che si considea da nascondere, da buttar via, per Dio è la terra in cui farsi vicino, presente.

Dio si avvicina in punta di piedi: in prima battuta non vuole nulla da Mosè, vuole solo essergli vicino, fargli sentire la sua amicizia.

Il nome di Dio (Es 3)

Per i semiti il nome contiene l’identità della persona, permette di afferrarla, di conoscerne l’intimità.  Dio svela il proprio nome, l’identità= “colui che c’è, che è presente, che c’è nelle piccole e grandi tragedie della vita dell’uomo, che ha a cuore le vicende dell’uomo”. L’esserci di Dio non si manifesta solo con le parole, (come ci dice la Dei Verbum relativamente a Gesù), ma “con fatti e parole”, e i fatti del suo esserci nel libro dell’esodo sono appunto l’intervento liberatorio nei confronti del faraone. Come dice il proverbio dai frutti si conosce l’albero, è nei fatti che si conosce la persona, è facile in teoria essere Dio a parole ma nei fatti si rivela per ciò che veramente è. Il cristianesimo propriamente non è una religione ma una fede, non crede in bei ragionamenti ma in una persona che si è resa fatto concreto.

Cosa può aver detto Dio per aver convinto intimamente Mosè a fare un passo così difficile, faticoso, pericoloso? “Caro Mosè, io sono tuo amico, lo sono sempre stato, quando correvi sul fiume in quella cesta, io facevo il tifo per te, ti sono stato vicino e sei rimasto illeso, ti ho fatto avere una buona educazione e un’ottima cultura, sei sempre stato al centro dei miei pensieri, ho sofferto con te per quell’errore di gioventù ma ti ho protetto sempre ed i tuoi passi si sono mossi al sicuro. Caro Mosè, io a te mi svelo tutto, perché tu veda che io sono tuo amico, che desidero il tuo bene. Vedi, è un bene se tu ritorni lì, proprio perché lì c’è la terra del tuo fallimento, vedi io desidero che sia una terra benedetta, che quel fallimento non sia l’ultima parola su quell’esperienza ma che diventi una benedizione. Ho bisogno di te perché io sono un Dio di uomini, di persone, non sono un dio che fa le magie come quelli degli altri popoli, non ho mani e piedi, non faccio io quello che puoi fare tu, ti do spazio perché tu possa sperimentare la vittoria sulle tue paure. Perché tu sei la persona giusta, perché tu, proprio tu lo puoi fare più di chiunque altro.”

Dio non fa leva sul senso di dovere, di responsabilità, non ti fa la morale, né ti becca con l’autoritarismo perché questo non è Dio, Dio nessuno l’ha mai visto ma se Gesù ci ha mostrato il suo volto, Dio è un Dio che quando si rivela porta sempre una buona notizia. Una Buona  Notizia tale da far ardere il cuore, da far leva sul desiderio buono di Mosè di riscattarsi da quello scacco, di potersi fidare, di fare qualcosa di bello per il suo popolo, Mosè viene contagiato da questa passione, riaffiora con speranza qualcosa che aveva sepolto.