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L’ultima cena

(tratto da J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2001, 130-132)

Ma allora cosa è stata veramente l’ultima cena di Gesù? E come si è giunti alla concezione molto antica del suo carattere pasquale? La risposta di Meier (Un ebreo marginale, vol I) è sorprendentemente semplice e sotto molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un’ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua.

In tutti i vangeli sinottici fanno parte di questa cena la profezia di Gesù sulla sua morte e quella sulla sua risurrezione. In Luca essa ha una forma particolarmente solenne e misteriosa: “ Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché io vi dico: non la mangerò più, finché non si compia nel regno di Dio” (22,15 s). La parola rimane equivoca: può significare che Gesù, per un’ultima volta, mangia l’abituale Pasqua con i suoi. Ma può anche significare che non la mangia più, ma s’incammina verso la Pasqua nuova.

Una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è stata l’antica pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto. Anche se questo convivio di Gesù con i dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell’insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù. E in questo senso Egli ha celebrato la Pasqua e non l’ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati; quando venne il loro momento, Gesù era già morto. Ma Egli aveva donato se stesso e così aveva celebrato con essi veramente la Pasqua. In questo modo l’antico non era stato negato, ma solo così portato al suo senso pieno.

La prima testimonianza di questa visione unificante del del nuovo e dell’antico, che realizza la nuova interpretazione della cena di Gesù in rapporto alla Pasqua nel contesto della sua morte e risurrezione, si trova in Paolo 1Corirnzi 5,7:” Togliete via il lievito vecchio per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!”. Come in Marco 14,1 si susseguono qui il primo giorno degli Azzimi e la Pasqua, ma il senso rituale di allora è trasformato in un significato cristologico esistenziale. Gli “azzimi” devono ora essere costituiti dai cristiani stessi, liberati dal lievito del peccato. L’Agnello immolato, però, è Cristo. In ciò Paolo concorda perfettamente con la descrizione giovannea degli avvenimenti. Per lui, morte e risurrezione di Cristo sono diventate così la Pasqua che perdura.

In base a ciò si può capire come l’ultima cena di Gesù, che non era solo un preannuncio, ma nei Doni eucaristici comprendeva anche un ‘anticipazione di croce e risurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua – coma la sua Pasqua. E lo era veramente.