home  »  Meditazioni  »  Il padre e i due figli

Il padre e i due figli

di Marco Tibaldi

dono da chiedere nella preghiera

  1. Gustare la misericordia di Dio che non si rassegna alle nostre fughe
  2. Accogliere il suo perdono
  3. Entrare nella logica della festa

Il testo: Lc 15

Disse ancora: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Punti per la meditazione

  1. Il più giovane disse. Ci sono due modi per allontanarsi dalla casa del padre. Il primo modo è quello del figlio minore che decide di allontanarsi perché non lo sopporta più, vuole farsi una vita autonoma, pensa che lì si soffochi, che non ci sia spazio per la sua realizzazione e per la sua felicità.
  1. Ed egli divise le sostanze. Il padre della parabola in modo del tutto inaspettato gli dà senza colpo ferire metà dei suoi beni: «e il padre divise  tra loro le sostanze (ton bion)» letteralmente «egli divise poi per loro la vita (ton bion)» (v. 12). Accetta in silenzio di sentirsi dire dal figlio che lui lo considera già morto, al punto da chiedergli l’eredità, che l’altro lo percepisce come un ostacolo per la propria crescita e realizzazione.
  1. Il figlio minore però una volta partito sperpera tutto e si ritrova da solo a pascolare i porci e ad invidiare le carrube mangiate dai maiali. Nel contesto ebraico, ciò rappresenta quanto di peggio possa accadere ad un uomo: nutrire e far crescere ciò che è considerato immondo, per questo, sintetizza Fausti, «chi si allontana da Dio, fa crescere in sé la sua dissomiglianza da Lui e nutre la propria inidentità con se stesso» (S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Luca, Bologna 1998, 548.)
  1. La fame e la situazione di miseria in cui si è venuto a trovare lo mettono in movimento: «allora rientrò in se stesso» (v. 17). Non è ancora la conversione, ma un primo rinsavimento generato dalla fame: «è una conversione a sé più che al Padre vede la differenza tra quanto c’è “qui” e quanto c’è “nella casa del Padre”. È lo scarto tra realtà e desiderio, tra fame e sazietà. Dopo una prima fase di rigetto del Padre, in cui l’uomo sperimenta la propria emancipazione (l’umanesimo ateo!), ci si accorge poi che in realtà l’ateismo è schiavitù dell’idolatria. Ma gli idoli non appagano: sono troppo piccoli e stupidi per bastare all’uomo. L’uomo che ha abbandonato Dio, ne sente il vuoto assoluto: è il suo posto lasciato vacante. L’alternativa a Dio non è l’ateismo, ma l’angoscia del nichilismo. Penso che oggi il nulla – la vuotezza del peccato assaporato fino alla vertigine – sia il normale pedagogo a Cristo (Gal 3,24). La fame grande è  la disumanità dell’uomo, la carestia di essere, che induce a cercare la fonte della vita. Dietro tanta angoscia moderna – chi non la sente? – c’è il crollare dei falsi valori. Dentro di noi c’è una misteriosa arca, davanti a cui ogni idolo si infrange, come Dagon. Dal suo rompersi dovremmo trarre non disperazione, ma argomento di speranza: cade solo perché è davanti alla Presenza (cf. 1Sam 5,1ss.)» (S Fausti op. cit.).
  1. La fase del ritorno del figlio è particolarmente delicata: occorre vincere quella che Rupnik chiama l’ultima tentazione. Il figlio, infatti, comincia a risvegliarsi e a «rientrare in sé», al pensiero di quanto accadeva nella casa del Padre. Ciò è positivo, è indice di un vero cammino spirituale, ovvero della ripresa – anche se per ora solo nel ricordo e nella nostalgia – del dialogo con il Padre. In questa fase, però, si insinua la tentazione di non entrare veramente in quella relazione dialogica che il peccato ha infranto e di voler risolvere ancora nell’autosufficienza anche la propria conversione.
  1. Il figlio della parabola è infatti tentato, una volta «rientrato in sé», di autopunirsi, mantenendosi in una situazione di schiavitù: «mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni» (Lc 15,18-20). Per questo, dice ancora Rupnik, «l’ultima tentazione cerca di farci rimanere atei, di non farci entrare nella dimensione autenticamente religiosa. Cerca di sostituire la fede come realtà relazionale con una fede intesa come etica, pensiero del bene, come un agire secondo pensieri pii e devoti», mentre invece «credere è amare in una relazione interpersonale agapica, è oggettivarsi nell’altro, cedere il primo posto, rinunciare al protagonismo» (M.I. Rupnik “Gli si gettò al collo”, 42 ss.).
  1. Volgiamo la nostra attenzione al Padre notando che «quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso (esplanchniste) gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (v.20). L’atteggiamento del padre è designato da un’espressione molto forte indicata dal verbo commuoversi (splanchnìzomai), che letteralmente indica il movimento dei visceri, l’attaccamento uterino della madre per il proprio figlio ed è reso nella traduzione CEI con  il verbo «commuoversi». Per questo, «la commozione è l’aspetto materno della paternità di Dio: il suo è un amore uterino e necessario, che lo rende vulnerabile e sempre disponibile. La commozione è l’esatto contrario dell’impassibilità o durezza di cuore: è la qualità fondamentale  di quel Dio che è misericordia (cf. Lc 6,36). Tutte le Scritture, la legge di Mosè, i profeti e i salmi, narrano la sua passione per l’uomo (Lc 24,26 ss. 44ss.)» (S.Fausti, op. cit, 550). In Dio c’è solo spazio per la misericordia, come si vede dal Libro di Giona o come nelle seguenti espressioni: «mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» (Sl 27,10); «si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15).
  1. Osserviamo da vicino il discorso che fa il padre al figlio maggiore per motivargli la necessità della festa: «perché questo mio figlio era morto (necròs) ed è tornato in vita, perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24.32). Nel dialogo ritorna il termine “morto” per descrivere la situazione del figlio allontanato: cosa significa? Un primo aspetto della rivelazione biblica è che essa ci invita a chiamare le cose con il proprio nome e fa conoscere all’uomo ciò che – pur vivendolo – non riesce a vedere. Nell’abbraccio del Padre è possibile riconoscere la situazione in cui ci si è trovati lontani da Lui, così come senza di lui tale analisi condurrebbe inevitabilmente alla  tristezza e disperazione.
  1. Il figlio maggiore però è ancora molto arrabbiato si sente defraudato dal padre che vuole premiare il fratello che ha sperperato tutto: entrerà alla festa? Accetterà la logica della gratuità e della misericordia del padre? Cambierà la sua immagine di un padre che sa solo calcolare “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici”, con quella della generosità senza contraccambi che sa far festa per il ritorno alla vita del fratello “morto”?

La parabola ha un finale aperto perché queste domande sono rivolte ad ogni lettore.