home  »  Approfondimenti  »  Il mistero del Sabato Santo

Il mistero del Sabato Santo

di Marco Tibaldi

(tratto da M. Tibaldi, Annunciare Gesù. Invito al mistero cristiano, Pardes Bologna 2006, 125-128)

Dopo la morte in croce e la deposizione del corpo di Gesù nel sepolcro ci troviamo di fronte al mistero del Sabato Santo, in cui si ricorda la discesa di Gesù agli inferi. È un mistero che è stato indagato più approfonditamente nella tradizione cristiana orientale, che lo ha rappresentato anche in alcune mirabili icone, ma che recentemente è stato riproposto anche all’attenzione della teologia occidentale, grazie all’opera del teologo svizzero H. U. von Balthasar .

Un approfondimento decisivo delle dimensioni e dell’importanza del kerygma si trova nel capitolo dellaTeologia dei tre giorni di von Balthasar dedicato al Sabato Santo , ove viene presentata la misteriosa proclamazione del vangelo ai morti, come si riporta in 1Pietro 3,19 e 4,6. Nelle osservazioni preliminari Balthasar critica il senso attivo che molta teologia ha assegnato al descendit ad inferos di Gesù, in nome di quella solidarietà che, se Cristo ha avuto da vivo con gli uomini, non può aver abbandonata da morto. Per questo motivo egli condivide con tutti gli uomini lo stato di assoluta passività che questa comporta. Nel contempo occorre però non ridurre la morte di Gesù sotto ad un concetto più generale di cui essa sarebbe l’ennesimo caso, ma occorre salvaguardarne l’unicità.

Alla luce di queste premesse Balthasar chiarisce come debbano essere sia l’essere di Gesù presso i morti che la sua proclamazione della buona notizia: non una nuova attività, ma la dilatazione a quel regno della redenzione già patita e ottenuta nella croce:

non sussiste difficoltà alcuna che impedisca di intendere questo ‘andar presso le anime in carcere’ principalmente come un ‘essere presso’ di esse e di considerare anche il ‘predicare’ soprattutto come l’annuncio della ‘redenzione’ attivamente patita e operata attraverso la croce col Gesù vivente e non già come una nuova attività, distinta dalla prima. L’essere solidale con la condizione dei morti verrebbe quindi ad essere il presupposto dell’opera della redenzione che si manifesterebbe ed eserciterebbe i suoi effetti nel ‘regno’ dei morti, ma sarebbe fondamentalmente conclusa sulla croce (consummatum est!). In questo senso allora anche la ‘predicazione’ attivamente formulata (1Pt 3,19; in 4,6 al passivo: euangeliste) dovrebbe essere intesa come l’effetto ‘nell’aldi là’ di ciò che si è compiuto nella temporalità storica (134)

Il fatto stesso di morire comporta ipso facto, in virtù della molteplicità di significati posseduti dalla morte, di essere nell’abisso, e così «il pieno spodestamento del nemico coincide con il penetrare nell’ambito più recondito del suo potere». Per illustrare questa situazione vengono citati diversi testi da Ap 1,18 al quadro apocalittico di Mt 27,51-53 che, pur contenendo elementi leggendari, «ci offre la possibilità di articolare i vari aspetti in maniera precisa: sulla croce è già stata distrutta la potenza dell’Ade, il sepolcro chiuso è già spalancato, ma la sepoltura di Cristo e il suo ‘essere con i morti’ sono ancora necessari perché il giorno di Pasqua possa avvenire – con il ‘primogenito Cristo’ – la resurrezione ek ton nekron».

Il carattere di oggettività posseduto dalle ‘attività’ del descensus si spiega con il senso generale dell’esperienza del Sabato Santo che, sulla scia del Cusano, Balthasar definisce come una visio secundae mortis, in cui «è proprio questo momento di contemplazione oggettiva (passiva) a costituire la differenza tra l’esperienza del Sabato Santo e l’esperienza soggettiva-attiva della passione». Cristo è infatti ormai un refa’ im, un senza forza, e per questo non può più condurre nessuna lotta all’inferno. Egli solo lì contemplala realtà del peccato in quanto tale: «non più il peccato dell’uomo individuale, incarnato nell’esistenza vivente del singolo uomo, ma il peccato astratto da questa individuazione, contemplato nella sua nuda realtà, in quanto peccato». È ancora una contemplazione del proprio trionfo, anche se non ancora nella forma della gloria della vita risorta, ma nella situazione oggettiva di morte in cui Cristo si viene a trovare: «l’oggetto di questa visio mortis non poteva essere costituito né da un inferno abitato, perché allora sarebbe la contemplazione non di una vittoria, ma di una sconfitta; né di un purgatorio abitato, poiché questo teologicamente non può esistere ‘prima’ di Cristo».

Un’altra caratteristica del descensus è la sua dimensione trinitaria. È infatti nell’inferno che il Figlio può portare a compimento la sua missione obbediente e scoprire l’ultimo segreto del Padre:

Se il Padre deve essere considerato il creatore dell’umana libertà – con tutte le conseguenze prevedibili! – allora anche il giudizio e l’ ‘inferno’ appartengono originariamente a lui e se egli manda il Figlio nel mondo per salvarlo invece di giudicarlo e a lui “rimette tutto il giudizio”(Gv 5,22), allora deve introdurlo, in quanto incarnato, anche nell’ ‘inferno’(come suprema conseguenza della libertà umana).

Qui Gesù realizza l’obbedienza estrema, l’«obbedienza di cadavere», che è l’unica che gli è possibile in questa situazione. Il senso ultimo di questa discesa consiste però per noi nella certezza che ormai non esiste più nessuna situazione di allontanamento da Dio (situazione di peccato) in cui non si possa trovare Cristo. Detto liricamente, ancora una volta con von Balthasar: «Egli soltanto sarebbe di qui innanzi la misura e quindi il senso di ogni impotenza. Voleva sprofondare sì a fondo che ogni cadere sarebbe stato un cadere dentro di lui. E ogni rigagnolo dell’amarezza e della disperazione sarebbe d’ora in poi defluito giù fin al suo abisso più profondo. Nessun combattente è più divino di colui che è in grado di vincere con la sconfitta». Con questo però non si può dire nulla sulla sorte soggettiva di coloro che sono stati raggiunti negli inferi da Cristo anche se, per Balthasar, alla luce di quanto detto è lecito sperare nella loro salvezza.